Cambiamo il nostro solito modo di (non) parlare di ROI

Quando sentiamo parlare di ROIdeisocialmedia, cadiamo immediatamente vittima di una serie di pregiudizi che ci sono stati inculcati in anni di blogging e discussioni, rischiando di liquidarlo come una diatriba inutile. Intanto consiglio qualche lettura seria come Social Media ROI di V. Cosenza oppure Open Leadership, che abbonda di esempi di calcolo del ROI, utili per convincere il management a cambiare stile.Qui invece proverò ad analizzare giusto un paio di questi luoghi comuni.

 

Luogo comune n.1:

Applicare strategie di marketing tradizionale ai social media è sbagliato, perché la Tv e Facebook non possono essere trattati con le stesse logiche.

In questo ritornello ritrito, che pure ci suona perfettamente sensato, risiedono almeno due errori concettuali gravi, propri di chi non ha mai lavorato in un’azienda seriamente orientata al marketing. Proviamo a spiegarlo in modo semplice.

Errore n.1: “strategia di marketing tradizionale = Televisione”
In realtà  nel conto economico di un’azienda, alla voce “marketing” sono comprese svariate righe di costo, tra cui

  • Ricerche di mercato (interviste, focus group, sondaggi…)
  • Promozioni (omaggi, concorsi, campioni…)
  • Non-working media (tutta la produzione di contenuti per i media, per es. qui va il costo della produzione di uno spot così come le fee da pagare alle agenzie per la creatività)
  • Working-Media (spazi pagati per tv, stampa affissioni cinema radio… internet e new media, che devono trasformarsi in visibilità  misurabile)
  • Per non parlare del marketing come centro di costo aziendale che assorbe la sua quota di spese generali: costo del personale, viaggi, rimborsi spese. Cancelleria. Telefonate col cellulare aziendale.

La strategia di marketing è l’insieme delle scelte che guida le decisioni di investimento in queste voci: per esempio, se sono a corto di nuove iniziative da lanciare dovrò investire di piò (per la precisione, aumentare più che proporzionalmente) le spese di ricerca e innovazione rispetto a quelle di pubblicità, e questa è già una bella decisione strategica.

Dunque il media e la presenza su determinati canali (social e non) sono una parte e una conseguenza della strategia. Per cui una buona strategia di business -> poi di marketing -> poi di comunicazione -> poi di media, non è tradizionale vs figa, vecchia vs giovane. E’ una buona strategia se ti aiuta a raggiungere degli obiettivi, oppure è una cattiva strategia se te ne allontana. Punto e basta.

Ripetere a memoria che applicare una strategia tradizionale ai canali social è sbagliato, è come dire che programmare il menu di una cena è sbagliato perchè alcune portate sono preparate al forno e altre in padella. Si stanno confondendo le idee con le esecuzioni (e così il social media strategist rischia di confondere una pagina facebook con una strategia di marketing). Le tecniche di cottura possono essere molto diverse tra loro ma il buon menu è un buon menu in base ad altri criteri, che di solito attengono al risultato in termini di feeling, sapori, e/o amici ubriachi.

Errore n.2 La strategia cambia dalla TV ai social perché cambia la logica.

E’ vero che la TV e Facebook sono completamente diversi in quanto strumenti, ma la buona o cattiva comunicazione resta buona o cattiva comunicazione, e di solito i contenuti della buona comunicazione sono quelli più al passo con i tempi e in sintonia con la gente. Quando vedi in TV uno spot che ti invita a interagire con il brand su Facebook creando i tuoi messaggi personalizzati che finiranno sul prodotto, o magari vedi uno spot scritto con le storie vere inviate dai consumatori tramite web, è forse la stessa TV di 20 anni fa? Che “logica” sta seguendo? Il mezzo è lo stesso, ma il messaggio e l’uso si sono fortemente evoluti. Guardiamo come X-Factor usa la TV per promuovere il suo range infinito di contenuti multimediali prima di fare un’affermazione del genere.

Luogo comune n.2, e corollario del primo:

“Siccome il ROI significa ritorni in vendite, non ha senso parlare di Roi dei social media. Oppure: ha senso, ma non puoi prendere in considerazione solo l’aspetto economico.

Il primo errore implicito in questi assiomi è pensare che  l’unico valore economico che le aziende capiscono siano le vendite, e – si sa – i social media non sono direttamente collegabili alle vendite (questo però non è sempre vero: proviamo a vedere cosa stanno combinando i Dysoniani, e a breve vi racconterò le nuove puntate autunnali :).
In verità  le aziende guardano anche ad altri valori che sono altrettanto indicativi della buona salute di un business: quota di mercato (ogni punto di quota vale x euro) notorietà , soddisfazione e fedeltà  dei clienti (riassumibile nel lifetime value, di nuovo euro), costi, margini, flussi di cassa… (posso avere un profitto elevatissimo ma vederlo in cassa tra 16 mesi, e ciò non va bene). Un piano di marketing può anzi deve essere collegato al miglioramento di uno o più di questi indicatori.

Il secondo errore è pensare che ci siano degli indicatori di salute di un business che non siano traducibili in un vantaggio economico. La buona salute è finanziaria. Il consumatore può essere felice e contento di aver ricevuto una risposta personale su Facebook, ma se i numeri non reggono l’azienda chiude, e i dipendenti vanno a casa. Il consiglio pratico è quindi scegliere uno o due indicatori-obiettivo e misurare quanto i contatti e le interazioni generati dal nostro piano li abbiano migliorati. La conoscenza di un marchio e la sua reputazione di qualità  possono essere misurati con un monitoraggio pre-post e hanno un valore economico (awareness x trial x repeat = lifetime value appunto). Anche la pubblicità  televisiva “tradizionale” si è sempre misurata così, perché in molti casi il suo impatto non è immediatamente visibile sulle vendite, ma è di medio-lungo periodo.

Un altro concetto economicamente molto chiaro ad un imprenditore è il costo-opportunità : quanto avrei speso comunque se non avessi investito? Una ricerca qualitativa decente con 4-6 focus group in Italia costa tra i 6 e i 10mila euro. Una campagna display che genera X contatti costerebbe Y. Se il mio piano costa meno e offre risultati uguali o migliori, quella è una misura di ROI. Come mi dissero brutalmente tanto-tanto tempo fa durante una presentazione (i traumi infantili restano): non scrivere che questo dato è NA, not available. Al limite è NF, not found. E sei tu che non sei riuscita a trovarlo.

Smettiamo di pensare al ROI come al GRaal, il calcolo impossibile chiesto da dinosauri che non capicono niente di social e iniziamo a riempirlo di piccole dosi di buon senso, a presentarlo come un obiettivo specifico con una sua metrica specifica per misurarlo. Se un piano di (social media) marketing non contiene queste indicazioni, semplicemente non è un buon piano.

1 commento
  1. Claudio Gagliardini
    Claudio Gagliardini dice:

    Ecco un’ottima riflessione, più che sensata e fin troppo “onesta” rispetto ad un panorama in cui regna la confusione e nel quale, troppo spesso, certe aziende preferiscono sentirsi raccontare incoraggianti panzane, piuttosto che schiette verità, benché suffragate da anni di professione e da solide basi tecniche.

    Generalmente tutto questo lo racconto in modo più semplicistico, per mia natura e per il livello medio degli interlocutori con cui mi capita di interagire, ma concordo appieno sulle considerazioni e sulle conclusioni.

    Rispondi

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