Per favore, non chiamatele PR…

Nel blog di The Talking Village, abbiamo inaugurato con G. Morici una serie di incontri con manager del marketing e della comunicazione. Oggi vorrei presentarvi un altro amico di lunga data: Osvaldo Adinolfi, Senior Vice President Marketing e Creative Director in Edelman – un gruppo che è un vero colosso della comunicazione.

  • Osvaldo, benvenuto! Raccontaci di te e del tuo lavoro: di cosa ti occupi e quali sono i tuoi obiettivi?

Oz b-wIniziamo subito con la domanda più difficile! Anche Giorgia (3 anni) me l’ha chiesto: “Dodo… tu che lavoro fai?”  A volte me lo chiedo anch’io. Vorrei fare un lavoro facile da spiegare a un bambino, un lavoro lineare e comprensibile. Invece la caratteristica del mio lavoro è quella di inventarsi e reinventarsi ogni giorno. Quando qualcuno mi chiede quale sia la mia “giornata tipo” io sono costretto a rispondere che non ho una “giornata tipo”. Pur strutturando un’agenda quotidiana, i ritmi del mio lavoro sono poi dettati da un cliente, da un giornalista, da un blogger… o semplicemente dal mio capo “supremo” a New York che mi contatta per una richiesta imprevista. Cercando di descrivere il mio lavoro con parole semplici direi che mi occupo di pensare, sviluppare e poi implementare strategie creative di comunicazione per i clienti della mia agenzia. E i miei clienti sono tra i più disparati: in un apparente “caos merceologico” che mi diverte molto e mantiene giovane il mio cervello. Questo lavoro è decisamente la mia passione. L’unico che so fare davvero bene. O comunque l’unico per cui gli altri sono disposti a pagarmi! Ho iniziato 25 anni fa (no, nemmeno io ci credo). E ho fatto esperienze sia in Italia che all’estero con estrema soddisfazione per tutto ciò che ho imparato e tutto ciò che ho realizzato: da Pringles a Playstation; da Pantene a Mastercard; da Virgin a Carlsberg. Niente male per un ragazzino grassottello, napoletano, con in tasca una laurea “sbagliata” in giurisprudenza. Oggi, posso dire di aver raggiunto tutti gli obiettivi professionali del passato, superando anche le mie più selvagge aspettative. Per il futuro, i miei veri obiettivi non sono più verticali bensì orizzontali: non mi interessa tanto far carriera ai vertici dell’agenzia quanto invece sperimentare nuove avventure di comunicazione in un mondo che cambia così velocemente. Anche se penso che con questa affermazione abbia messo in serio pericolo qualunque possibile promozione.

  •  Qual è la prima cosa che hai imparato, quando hai iniziato questo “mestiere”?

Per citare un famoso spot del passato (che recitava “la potenza è nulla senza controllo”), il primo grande insegnamento fu che la creatività è nulla senza un approccio strategico e metodologico. Una creatività prorompente e incontrollata non è sana: rischia di cannibalizzare il prodotto e i suoi messaggi principali. Quante campagne di comunicazione ricordiamo con piacere, ma senza avere memoria del brand? Per un giovane ventiquattrenne come me che pensava di cambiare il mondo con le proprie idee creative fu un grande insegnamento. L’ho imparato in Procter&Gamble (per me una grande scuola di management prima ancora che di marketing) soprattutto quando ho lavorato e vissuto negli Stati Uniti, un paese che forse non brilla per creatività ma è geniale per l’impostazione strategica. Io sono Napoletano. Come per quasi tutti i napoletani, sono nato e cresciuto con una forte vena creativa, necessaria anche solo per inventarsi un lavoro. E proprio sul lavoro ho dovuto imparare a conoscere questo potenziale, a gestirlo e usarlo. Come racconta lo zio di Ben Parker – Spiderman – al nipote:  “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Io ho imparato che da una grande vena creativa deve derivare un grande rigore strategico perché si possa davvero raggiungere un obiettivo di business.

  • Invece l’ultima cosa che hai imparato, diciamo nell’ultimo anno?

La “mobile photography”: in altre parole come usare uno smartphone per creare immagini che abbiano un forte impatto sociale e un forte potere virale. La fotografia è la mia passione, da sempre. Sono nato (fotograficamente) in analogico. In una camera oscura, con acidi per lo sviluppo della pellicola e carte baritate per la stampa delle immagini. Insomma, in un mondo senza filtri e photoshop. Poi mi sono convertito alla fotografia digitale imparandone i segreti e le peculiarità (pur rimanendo fedele alla mia Canon). Ma fotografare con uno smartphone è tutta un’altra cosa, richiede competenze peculiari. Eppure sta diventando “un’arte” necessaria. Se pensi che molta parte del giornalismo moderno ricorre a immagini generate da gente comune tramite cellulare (il fenomeno di YouReporter). Se pensi che la migliore campagna del 2014 è stata rappresentata da un unico “selfie” scattato durante la notte degli Oscar (un bel colpo per Samsung)… selfieoscar … allora direi che imparare a usare un “telefonino” anche (o soprattutto?) come strumento fotografico è diventato indispensabile per la comunicazione moderna. E io sto migliorando di giorno in giorno. Soprattutto su Instagram.

  • Mi hai detto chiacchierando, che la parola PR ti sembra vecchia, limitante. Io, per esempio, provo a proporre “People Relation”. Le grandi aziende parlano di Media Relation o External Relation, le PMI fanno… Ufficio stampa. I consulenti più evoluti parlano della necessità di gestire la reputazione – e chi legge immagina sempre le crisi, le inchieste, e gli scheletri da nascondere per bene nell’armadio. Cosa pensi che manchi in questo quadro?  

Direi che c’è fin troppo!!! Il problema è insito nel verbo che hai ripetuto: “parlano”. Si parla troppo. C’è troppa terminologia inutile e gratuita nel nostro settore. Confonde e non fornisce chiarezza. Per definire il fenomeno della comunicazione virale sono stati coniati i termini Viral Marketing, Buzz Marketing, WOM marketing, Diffusion Marketing… tutti ad indicare sostanzialmente la stessa strategia comunicativa. Spesso differenti terminologie fanno solo riferimento a differenti aziende. Quello che per alcuni è il Brand Manager per altri è il Product Manager. Quello che per alcuni è il reparto Media Relations per altri è il reparto External Relations. Bisognerebbe fare pulizia e semplificare la terminologia eliminando le definizioni ridondati oppure obsolete. E a proposito di termini obsoleti inserirei al primo posto proprio l’acronimo PR. È una definizione che non ho mai amato! Non solo perché in Italia ha sempre assunto un significato dubbio e penalizzante che richiama il mondo delle discoteche, dei ricevimenti e dei salotti politici (niente di più lontano dal marketing). Ma anche perché è una definizione vecchia che appartiene a una metodologia lavorativa del passato.  Il mondo della comunicazione (e non solo) si divide in ciò che è nato e accaduto negli anni BD (Before Digital) e quello che è nato e sta nascendo negli anni AD (After Digital). Come avvenuto con la figura di Cristo nel mondo cristiano, la rivoluzione digitale ha stabilito un prima e un dopo nel mondo del marketing e della comunicazione. Parlare ancora di pubbliche relazioni o di ufficio stampa in un periodo dove un giornalista invece di scrivere sulla propria testata manda un tweet è decisamente fuori dal contesto moderno, in cui le relazioni sono completamente cambiate e si sono strutturate in maniera diversa. Da una nostra ricerca emerge che negli USA ogni giornalista dichiara di avere almeno tre blogger tra le proprie fonti di informazioni. Gli stessi Blogger che a loro volta usano Twitter per una rete di relazioni immediata con i propri follower. Insomma, in un mondo dove le informazioni volano sulla rete, dove il presidente del consiglio twitta… e dove persino il Papa twitta… noi stiamo ancora parlando di PR?!  Ripartiamo dai nuovi linguaggi sociali e digitali invece di barricarci dietro le nostre antiche (false?) certezze terminologiche.

  • Quali luoghi comuni della comunicazione andrebbero sfatati?

OZCopy (3)Il più grande: quello secondo cui il marketing ha il potere di generare bisogni inesistenti! Non è vero, oggi più che mai!  Il consumatore moderno è intelligente, è sofisticato, ha accesso a tutte le informazioni sul web e, come se non bastasse, gestisce alcune leve di comunicazione (vedi i social network) meglio di un manager d’esperienza. Non puoi prenderlo in giro con operazioni senza valore o contenuto. E non puoi costringerlo a comprare un prodotto di cui non ha bisogno. “Ca nisciun è fesso” si dice dalle mie parti. La comunicazione di marketing dunque può solleticare, evidenziare e proporre bisogni latenti, quelli cioè non ancora ben razionalizzati. Ma non può creare bisogni inutili e inesistenti. Chi di noi, dieci anni fa, avrebbe risposto sì alla domanda “hai bisogno di una APP sul tuo smartphone?”.  Eppure oggi non riusciamo nemmeno a cucinare o a guidare un’automobile senza un’APP che ci dica cosa fare. Il bisogno, dunque, di un’informazione semplificata attraverso applicazioni digitali a portata di mano esisteva. Ma nessuno l’avrebbe razionalizzato, soddisfatto e commercializzato così bene se non fosse arrivato Steve Jobs.

Ma certo! Conosco il libro e ho seguito alcune sue presentazioni. L’argomento è molto interessante, anche perché sfata alcun luoghi comuni (appunto) e ricorda a noi manager l’essenza del nostro lavoro. Penso che la risposta sia SI’: si può e si DEVE fare marketing rimanendo brave persone. Sarebbe ipocrita però negare che ci sono stati (e ci sono) alcuni esempi negativi che hanno contribuito a formare nella pubblica opinione alcuni preconcetti. Purtroppo la triste legge dell’informazione vuole che un esempio negativo (comunque da condannare) faccia più notizia di cinquanta esempi positivi. Così spesso si finisce per ignorare, sottovalutare o dare per scontate molte iniziative di grande valore sviluppate dalle aziende nelle proprie strategie. Ed ecco che la nostra reputazione, come manager di marketing, rimane quantomeno dubbia. Propongo a Giuseppe un sequel del suo libro, che magari scriveremo a quattro mani: “Fare marketing rimanendo brave persone, giudicate e reputate come tali”.

  • Una tua opinione spassionata sulle Digital PR e sugli influencer: quali sono le frustrazioni che sperimenti e quali opportunità ancora da cogliere? Meglio avere a che fare con i giornalisti o con i blogger? 

Rispondo con un brevissimo salto nel tempo. Dopo l’era mesozoica, l’era paleolitica (e per i bambini… l’era glaciale), questa sarà ricordata come l’era digitale. È un dato di fatto. Nel cinema, nella musica, nell’arte. Anche le professioni più antiche si sono o si stanno digitalizzando, come la medicina o l’architettura. Dunque, qualunque possa essere la nostra opinione sulla comunicazione digitale essa deve partire dalla sua accettazione. È il presente e sarà il futuro. E chi rifiuta la digitalizzazione (soprattutto nel marketing) ha perso la sua sfida in partenza. La mia opinione, quindi, su qualunque elemento della comunicazione digitale non può che partire da una positiva consapevolezza dei tempi in cui viviamo. La nascita di “protagonisti digitali” che affollano la comunicazione nei blog, nei social network, nei web forum o community… è da considerarsi un successo di democrazia. È la nascita di un nuovo marketing meno sovrano e molto più democratico, capace di condividere e interagire come mai successo prima. E’ però anche vero che talvolta il confine tra democrazia e anarchia diventa labile, spesso poco visibile. E per questo estremamente pericoloso. La pluralità di opinioni riconducibile al moltiplicarsi degli “influencer” è un’opportunità di arricchimento. Ma l’anarchia che spesso si genera sui canali digitali è davvero frustrante, soprattutto quando la pluralità di opinioni si trasforma in conflittualità gratuita e senza sostanza. Se posso dirla tutta… a volte penso che la rivoluzione digitale abbia cambiato un po’ le regole dell’evoluzione darwiniana fornendo parola anche a chi forse non avrebbe meritato di averla: quanti profili si trovano su Twitter o su Facebook gratuitamente polemici solo perché interessati ad aumentare il numero dei propri “follower”?! Con loro è quasi impossibile dialogare e alcuni di loro non sono nemmeno interessati a farlo. Questo non rende merito e giustizia al grande mondo degli influenzatori digitali. A volte, anche il settore dei Blogger appare ancora troppo eterogeneo. Non esiste, ad esempio, una linea comportamentale comune a cui far riferimento per gestire i contatti e le relazioni con loro. Per la stima enorme che ho nei confronti dei blogger, consiglio loro di iniziare a strutturarsi con un codice etico e comportamentale per distinguere la grande professionalità dei molti dallo sterile e dannoso protagonismo dei pochi. Il digitale è una cosa seria. E come tutte le cose serie va affrontato con professionalità e metodo non con improvvisazione o carrierismo. Questo vale naturalmente per tutti: dalle aziende ai blogger, dai giornalisti digitali alle “Twitter star”.

  • In questo periodo dell’anno abbondano previsioni, analisi di scenario, trend. Quali sono le nuove sfide, i temi strategici di cui ti occuperai nel 2015?

Oggi nemmeno le previsioni del tempo riescono a essere precise come nel passato! I cambiamenti (climatici e sociali) sono divenuti così repentini che le migliori previsioni sono sempre quelle a breve termine. Chi parla abbondantemente di previsioni e di tendenze è un opinionista del marketing, non un manager. I manager hanno imparato a osservare e ascoltare i cambiamenti prima di esprimere opinioni e sviluppare azioni. Anche io preferisco analizzare e studiare nuovi fenomeni prima di azzardare previsioni. Ultimamente, ad esempio, mi sto occupando di comprendere meglio quella che molti chiamano la Generation Z. Una generazione anagraficamente ancora molto giovane (adolescenti) che hanno però molte differenze con quelli che ancora oggi chiamiamo i Millennials, e ne rappresentano un’evoluzione. Sono decisamente più connessi che mai (li chiamano i “5 Screen Guys” in quanto possiedono e usano –a volte contemporaneamente- 5 strumenti di comunicazione quali TV, Smartphone, Laptop, Desktop e Mini Tablet). Ma il loro tempo di attenzione sugli argomenti è più basso. In altre parole sono ricettivi a tutto e in qualunque momento ma riuscire a mantenere alta la loro l’attenzione è sempre più difficile. Anche perché per comunicare usano sempre meno testo e sempre più immagini (ecco perché Instagram è il social media in maggiore crescita). Nonostante siano ancora minorenni hanno un potere decisionale sugli acquisiti.   Penso che parlare con loro nell’immediato futuro sarà una bella sfida per i comunicatori, soprattutto quelli abituati ancora a usare troppe parole per trasferire i messaggi importanti. Oggi stiamo forse sottovalutando la velocità con cui viaggiano non solo le informazioni ma anche i cambiamenti… E ricordiamoci che la specie che sopravvive non è la più forte o quella più intelligente, ma quella che sa adattarsi al cambiamento. Questo vale anche per il manager di marketing, naturalmente. Non vorrei rischiare l’estinzione.

  • Tempo fa abbiamo condiviso alcuni dati tratti proprio da uno studio di Edelman. Sembra che i brand abbiano ancora molta strada da fare… Raccontaci un esempio di buone prassi, un progetto che secondo te interpreta efficacemente una comunicazione postmoderna, non convenzionale, trasparente da brand a persone (anch’io ho i miei problemi di linguaggio e trovo il termine target/consumatore molto limitante!).  

gioco-del-lotto-300x199Posso farti l’esempio di un brand in cui credo molto e con cui stiamo realizzando un buon lavoro: Il Gioco Del Lotto. Per un marchio giovane e moderno è relativamente facile intraprendere una comunicazione non convenzionale. È invece sorprendente che il brand più antico del mondo (il Gioco del Lotto nasce più di 500 anni fa) stia riuscendo –con umiltà ma anche con determinazione- a reinventare se stesso nel terzo millennio, pur rimanendo fedele alla sua identità. Il Lotto ha abbandonato negli ultimi anni, ad esempio, i canali pubblicitari classici, quelli tabellari in cui il pubblico è un mero spettatore passivo. Ed ha iniziato a investire in canali interattivi vicini al suo pubblico (attuale e potenziale) per renderlo protagonista delle attività di comunicazione. Avresti mai pensato che un marchio così antico fosse presente sui principali social network con un numero di iscritti in costante crescita (ad oggi oltre 40.000 in un solo anno) ma soprattutto in costante dialogo positivo? Avresti mai immaginato che il Gioco del Lotto avrebbe reinterpretato uno dei suoi asset più classici come La Smorfia attraverso un grandissimo sondaggio digitale che ha coinvolto più di diecimila appassionati partecipanti, che hanno contribuito a creare così la prima Smorfia 2.0?! Questi sono naturalmente solo alcuni esempi di come un marchio può interpretare efficacemente una comunicazione non convenzionale. Avrei potuto farne altri, ma per rispondere a questa tua domanda, nel contesto di un’intervista basata sulla modernità dell’era digitale, mi piaceva citare come esempio… un ossimoro: un brand tanto antico eppure con le potenzialità per essere un grande protagonista del terzo millennio. La vera comunicazione moderna o post moderna non richiede requisiti anagrafici: non è un’esclusiva dei brand giovani (o pseudo tali). Basta rendere protagonista il proprio target attraverso azioni interattive e co-creative nei contenuti. Si genera così valore e rilevanza sui principali benefici emozionali. E si sa… tutti siamo pronti a lasciarci andare quando siamo coinvolti dalle emozioni.

  •  L’ultima curiosità: un libro che ti ha cambiato, personalmente o professionalmente…o in entrambi i modi.

il-gabbiano-jonathan-livingstone_fronteIL GABBIANO JOHNATAN LIVINGSTONE. Mi ha insegnato a volare! Sia personalmente che professionalmente. Quando all’università mi chiedono di suggerire alcuni libri per sviluppare il pensiero creativo, raccomando sempre questo. Mi ha insegnato la consapevolezza dei miei limiti ma anche la capacità di superarli con caparbietà. C’è una frase del libro che mi sembra pertinente: “Non credere sempre ai tuoi occhi, guarda con il tuo intelletto e con la tua fantasia… allora imparerai come si vola”. Oppure suggerisco alcuni testi di Sepulveda e Bemberen: da “Il Cammino di Santiago” a “L’Onda Perfetta”. I libri di marketing insegnano il metodo, ma sono così razionali che tendono talvolta a castrare la creatività. Per (ri)leggere Philip Kotler c’è sempre tempo… è bene che il marketing abbia solide radici, ma per volare nell’era digitale ha bisogno di ali grandi e di una fantasia che non abbia paura di sfidare i propri limiti.

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