Brand Marketing e Media Marketing

Il caso Unieuro (raccontato bene qui) ha provocato una notevole divisione tra sostenitori entusiasti e acerrimi detrattori.

Devo ammettere di aver provato un certo sconforto iniziale, ma poi ho deciso di indagare meglio.
La mia opinione è stata (e in gran parte rimane) questa:

“Il mio regno per un pugno di condivisioni”
Il lavoro del social media manager è dare voce ai brand portandone in vita l’identità, trasformandolo in una persona che parla con la gente. Chi parla è il brand. E’ un lavoro molto diverso dall’attore. Voglio dire, negli ipotetici social di shakespeare ci sarebbe stato Shakespeare a diffondere i suoi messaggi universali, o il suo ghost writer, ma non l’attore da acclamare per l’interpretazione.
Quando gli account dei brand sembrano all’improvviso maschi alfa che marcano il territorio (quello degli “esperti social”, con tutta la sequela di inutilità dei commenti standard del tipo “è idiota o un genio?” “si ma qual è l’effetto sulle vendite?” “eeeh basta che se ne parli” “genio, genio!”), il Brand rimane solo un nome sullo sfondo. Quando il Brand approva una strategia (o peggio non ne ha affatto una e lascia carta bianca a un’agenzia) per cui cui ad attirare attenzione e viralità è la cosiddetta genialità del social media manager, è vanity (del smm). non è equity.
Riferimenti: Unieuro e Taffo (che da anni rimane coerentemente dissacrante, che HA CREATO un brand su questo, quindi chapeau), ma anche per esempio le iniziative sui minuti di cottura di Garofalo – che appiccica un numerone sul pack e si attira l’ondata di like – e Barilla – che crea una serie di playlist Spotify.
Chi pensa all’equity e chi alla vanity?

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Ma torniamo al caso Unieuro. Su una cosa non mi sono ricreduta, e cioè i toni da maschi alfa che ho visto nei post che hanno difeso la campagna. In definitiva, a prendersi tutto il merito di questa azione sicuramente di forte impatto è stata l’agenzia con i suoi petti gonfi… non il brand.

Su strategia e metriche  invece ho deciso di imparare di più. E sono giunta alla conclusione che non si tratta di mancanza di strategia e di vanity metrics.
Si tratta piuttosto di distinguere tra brand marketing e media marketing. Cioé?

1) Per alcune campagne il branding è irrilevante.

Quindi “Il mio regno (di brand) per qualche migliaia di condivisioni”, è un obiettivo legittimo e perseguibile.
Lo dice anche questo articolo, di un autore che apprezzo sempre molto per i suoi toni provocatori: il branding, in alcuni casi, se ne frega. Le conseguenze che immaginiamo sulla brand image sono, talvolta, solo nella nostra testa di esperti di branding.
Ok, punto preso : )

2) Nelle campagne di questo tipo, il potere (nel senso di leadership di pensiero) non appartiene più agli esperti di comunicazione, ma a quelli di media digitali.

Nello specifico caso di Unieuro, agli esperti di piattaforme di pianificazione tipo Facebook Manager. Mi spiego meglio: prima, nel meraviglioso mondo del marketing anni ‘90, le competenze erano nettamente distinte: io marketing mi occupo di capire come confezionare un messaggio efficace, una volta che l’ho capito – o penso di averlo capito – tu agenzia di advertising me lo traduci in un’idea creativa che spacca, e infine tu agenzia media ti occupi di comprare gli spazi e i canali per farlo giungere a destinazione. Bei tempi vero? Il media era potente solo in funzione dei budget gestiti e del suo potere negoziale per spuntare i costi più bassi, ma non poteva in alcun modo cambiare il messaggio.

Salto avanti, anno 2021. Capite in che Eldorado siamo ora? I budget tagliati dalle crisi, e il senso di esaltazione di chi riesce, con i suoi messaggi e la reazione immediatamente visibile delle audience,  a scalare numeri di reach, a fare remarketing e retargeting e molte altre belle cose come top, mid e bottom funnel. Non a caso la critica più frequente è: i commenti riguardano solo la bravura del Social Media Manager e non il brand! Ma il brand in questo caso doveva far vendere altri brand, e in fondo l’ha fatto piuttosto bene. Ha fatto media marketing, non brand marketing. Vorrei dire ha scelto di farlo (perché una scelta è una strategia deliberata) ma penso che sia più realistico dire che ha dato fiducia alla bravura dell’agenzia.

3) Bisogna acquisire competenze il più possibile multidisciplinari.

Rimanere attaccati a una sola competenza e valutare campagne e loro effetti solo alla luce di quella, è un’opportunità persa: c’è sempre tutto da sperimentare e da imparare. Purtroppo, devo dire, le agenzia di social…media richiedono e sviluppano competenze sempre più sofisticate di…media, e non di branding. Quindi i social media strategist che insultano i dottoroni di marketing (“Pensare che un brand sui social “deve comportarsi da brand perché è sempre stato così ed è giusto così”, significa che questa mattina siete venuti a lavoro sulla vostra fantastica biga trainata dai cavalli di Ben Hur) e viceversa, sono solo espressione di un punto di vista inevitabilmente parziale. Gli acquirenti (“geni” quando si trasformano in conquistatori) di spazi media insultano chi lavora per produrre un buon messaggio, e quest’ultimo denigra quelli senza i quali i messaggi, per quanto ben confezionati, non si vedrebbero nemmeno.
Così riproduciamo i silos di 30 anni fa, con l’aggravante della mancanza di rispetto per cui ognuno da’ della “fuffa” all’altro.

Invece dovremmo contaminarci il più possibile. Ecco una lettura utile per capire l’importanza della multidisciplinarietà ai giorni nostri. Sono tempi veramente complicati… va sviluppata la capacità di comprendere questa complessità.

 

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